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Channel: Iside Fontana – AltraScienza
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Evoluti e sorprendenti

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Il presente contributo prosegue l’avventura dei nostri “audiopost”, sorta di podcast sperimentale di AltraScienza, che presentiamo – come per la scorsa occasione – nella duplice veste di video e testo scritto.

Mi ha creato Dio o sono il prodotto dell’evoluzione?

Facile direbbe la biologia: sei il prodotto dell’evoluzione. Punto.

Facile direbbe la metafisica cristiana, agonizzante ma tenace, con suoi rappresentanti ancora viventi nella teologia naturale: Dio ci ha creati, che diamine!

Detta così sembriamo al tiro alla fune, come se ciascuna posizione cercasse di avere ragione a tutti i costi, in modo esclusivo.

Ma come fare per iniziare ad avere una visione realistica di chi sia l’uomo?

Proviamo a riprendere il discorso iniziato nel post precedente.

Lo spunto lo cogliamo dal lavoro del teologo Francesco Massobrio in “Il cristianesimo alla prova del racconto evolutivo – un confronto critico necessario” (Mimesis 2018).

Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche la teoria dell’evoluzione non è bypassabile. I dati dell’osservazione oggettiva richiedono poi un’interpretazione che, a livello filosofico, assume la forma del racconto evolutivo.

Nel panorama filosofico attuale, Massobrio riconosce Telmo Pievani come interlocutore stimolante perché il suo naturalismo filosofico ha come riferimento chiave una visione tratteggiata dentro il territorio marcato dalle scienze. Pievani rimane completamente nell’alveo scientifico, quindi è un pensatore da guardare con interesse per cogliere appieno le conseguenze della lettura scientifica della realtà.

Conseguenze che, Massobrio dice, la teologia dovrebbe prendere altrettanto sul serio.

Infatti, ciò che mi pare convincente in Massobrio è il suo tentativo onesto di lasciarsi interpellare in modo radicale.

Dare credito al dato scientifico vuol dire rimanere aderenti alla concretezza della vita, cosa che per una prospettiva cristiana dovrebbe essere altrettanto centrale. Infatti, un cristiano si muove dalla vicenda storica di Gesù di Nazareth, dal Logos che si fa carne. Questa carne emerge però da una lunga storia evolutiva che all’osservazione oggettiva mostra alcune caratteristiche. La vita compare “inaspettata” (come recita il titolo di un libro di Pievani) circa 4 miliardi di anni fa o poco meno. E da lì in avanti è stato un laboratorio in continua sperimentazione, dove mutazioni genetiche casuali si intrecciano con condizioni ambientali locali finendo per selezionare gli organismi meglio adattabili a quegli habitat. Inaspettata dunque è ogni forma di vita, cioè ogni specie che compare sulla Terra come prodotto di una serie di fattori e circostanze che si sono verificati in modo unico e irripetibile. Il risultato si vede solo alla fine, cioè osservando l’esito del processo. Non c’è nulla di preordinato che fin dall’inizio spingerebbe la vita a produrre quelle forme. Le specie sono l’esito di contingenze direbbe Pievani, cioè nel fluire della storia naturale le cose accadono per incontri, adattamenti, per catene causa-effetto indipendenti che si incrociano.

A questo punto la metafisica cristiana trema di terrore e di furore, ma se proviamo a calarci seriamente dentro queste scoperte biologiche, ogni finalismo, ogni disegno provvidenziale come tradizionalisticamente pensati non possono che essere lasciati andare. Negare l’evidenza espone al ridicolo e conferma agli scienziati riduzionisti la bontà delle loro ristrettezze.

La vita dunque non accade né secondo un piano divino dettagliato, presente fin dall’inizio del mondo, né con una finalità che avrebbe fin dall’inizio l’uomo come obiettivo ultimo. Il racconto evolutivo ci dice che proprio per come si sviluppa la vita, vediamo che non esiste nessun progetto interno e predeterminato. Certo la vita ha le sue regole ma con un ampio spazio per la variabilità che sfrutta al meglio le condizioni specifiche e contingenti.

Perciò anche l’uomo, essendo a tutti gli effetti parte di questo movimento storico naturale, giunge inaspettato, inedito, unico come tutte le altre specie.

Qui però siamo pronti per un secondo crollo (di nervi) dell’impostazione teologica tradizionalistica: l’alternativa secca tra caso e necessità. La realtà si mostra più modulata di quanto non lo possa consentire un pensiero polarizzato tra casualità e necessità. La realtà ammette il caso come uno dei tanti fattori del gioco evolutivo, insieme a regolarità che noi leggiamo come le regole della vita. Quando abbiamo tanta paura del caso, in genere stiamo pensando al casaccio (Tra caso, casaccio e contingenza: dov’è il senso?): i processi naturali non si verificano per lancio di pezzi per aria e poi stiamo-a-vedere-cosa-cade-al-suolo. La vita così sarebbe impossibile, di sicuro nella varietà in cui la vediamo, ci rassicura il racconto evolutivo. Dunque, niente casaccio, un po’ di casualità, un po’ di regole, chimiche ad esempio, tante situazioni momentanee in cui adattarsi di volta in volta. L’esito è di una creatività sorprendente.

Qui però arriviamo ad un punto cruciale.

Secondo il racconto evolutivo, un tratto naturale che si manifesti con complessità crescente lo fa su base quantitativa. Ad esempio, in organismi più semplici il sistema nervoso è rispettivamente più semplice, poi man mano il sistema si complessifica fino ad arrivare nell’uomo al grado massimo di complessità finora raggiunto.

Anche per la dimensione culturale vale la stessa cosa: si tratta di un aspetto emergente dalla storia naturale, di esso se ne vedono tracce anche in specie meno evolute e man mano che emergono organismi più evoluti la cultura si raffina, interpretando le acquisizioni sempre e solo su base quantitativa.

Si può però escludere la singolarità qualitativa dell’uomo? Cioè possiamo pensare all’uomo come inaspettato, unico e singolare, non solo, e magari neanche tanto per quantità, ma per qualità?

La risposta, o almeno, molto più modestamente e realisticamente, un abbozzo di risposta al prossimo post.


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