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Che cosa manca al CICAP?

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Incuriosita da una pubblicità del CICAP Fest 2022 (il CICAP è il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze), ho provato ad ascoltare una serie di video sul loro canale Youtube. Ho un interesse scientifico, mi piace approfondire e sono stuzzicata da chi ha come mandato del suo operare il portare alla luce le ragioni scientifiche a fronte di tanta confusione informativa.

Mi sono perciò avventurata in quei territori con molta attesa di trovare ragionamenti chiari che, tenendo conto della complessità del reale e della base probabilistica del conoscere scientifico, fossero capaci di orientare il pensiero verso una maggiore consapevolezza sugli argomenti trattati, mediante l’uso di affermazioni ben ponderate.

Non è però esattamente ciò che ho trovato.

Giustamente al CICAP, come per altri fact checkers scientifici, si cerca di mettere in evidenza gli errori di ragionamento cui solitamente siamo soggetti, di richiamare l’attenzione sull’importanza di verificare le proprie affermazioni a partire da evidenze sperimentali, di ragionare sui dati e non soltanto sulla base di impressioni più sfuggenti.

Ascoltando gli interventi degli scienziati però ho notato come quegli stessi bias cognitivi che vengono indicati essere alla base del pensare distorto, in realtà siano sempre in agguato pronti a spuntare fuori dalle menti degli scienziati stessi, ad esempio sotto forma di contraddizioni logiche nelle esposizioni o di selezione di argomenti che portino “prove” a favore delle proprie idee ignorando argomenti che le metterebbero in discussione.

La mia reazione automatica è stata quella della stizza e del fastidio, ma anche di un sottile piacere nel beccare in fallo proprio loro, i perentoriamente granitici scienziati.

Poi mi sono guardata meglio dentro, ho osservato queste emozioni, ho provato a lasciarle scorrere cercando di riconoscerle come reazioni ad aree di mie fragilità e mi sono chiesta che cosa potessi imparare da ciò che stavo ascoltando nei video e da ciò che stavo provando.

Che cosa accade quando vogliamo essere ferrei nel ragionamento logico, ben focalizzati sui dati degli esperimenti e ben intenzionati a tenere lo sguardo fisso sul bersaglio, assumendo che fuori dal cerchio non ci sia nulla o per lo meno nulla di rilevante?

L’esito è il collasso in un riduzionismo svilente che sentenzia, per un a priori senza fondamento di cui si rimane però inconsapevoli, che soltanto il misurabile abbia diritto di esistere quando si prendano decisioni per sé e per la collettività.

La vita si manifesta con una complessità di cui andiamo sempre più rendendoci conto e certamente anche lo scienziato riduzionista lo afferma. Tuttavia poi non ne tiene conto nei suoi ragionamenti, prigionieri del settorialismo che facilmente scivola nel dire tranchant, che non consente negoziazioni.

Devo ammettere che mi inquieta la superficialità di un’ottica che, riducendo tutto al misurabile, ignori lo straripare di un umano che non si lascia ingabbiare nella misurazione.

Provo a fare un esempio.

Ho ascoltato due video (Credenze rubate all’agricoltura e Bufale nell’agroalimentare) sull’agricoltura in cui si parlava di organismi geneticamente modificati (OGM), agricoltura biologica, agricoltura biodinamica.

Capisco benissimo il punto di vista fact checker di chi consideri il biodinamico come magia, il biologico come parzialmente accettabile e gli OGM come del tutto adeguati.

Un conto però è che gli scienziati specialisti facciano valutazioni che rimangano squisitamente entro il piano tecnico, un conto molto diverso è che analizzino anche la portata applicativa di queste tecniche su scala mondiale rapportate all’obiettivo di sfamare l’umanità.

La seconda prospettiva prevede una visione complessiva che tenga conto dei molti fattori intrecciati tra loro a formare reti di fenomeni mutualmente influenti. Semplificare la rete a catena e considerarne soltanto l’ultimo anello di relazione causa-effetto; portare tutto sul piano tecnologico ritenuto l’unico in grado di trovare soluzioni, mi pare che faccia approdare a risultati insufficienti e poi, alla fine, deleteri.

Davvero il problema della disponibilità alimentare nel mondo è soltanto una questione di rese agricole incrementabili con OGM in monocoltura, fertilizzati con prodotti di sintesi, coltivati in modo da essere funzionali alle caratteristiche delle macchine agricole?

Il tema del cibo ha ben altri orizzonti che non si possono esaurire nella semplice equazione:

8 miliardi di persone da sfamare = aumentare le rese e massimizzare lo sfruttamento del suolo.

Stiamo pagando caramente questo tipo di approccio, tuttavia la visione tunnel del riduzionismo non è in grado di vedere oltre e perciò ripropone lo stesso schema con un surplus di potenza tecnologica, che è ad alto rischio di amplificare il problema che ha già contribuito a causare, invece di attenuarlo.

Nell’equazione dovrebbero anche entrare:

  • il terzo di cibo sprecato nell’intera filiera alimentare dalla produzione al consumo;
  • il tasso di obesità in continuo aumento e purtroppo non soltanto nei paesi occidentali;
  • la stagionalità della produzione e della vendita di frutta e verdura;
  • la località della produzione e della vendita dei prodotti alimentari;
  • il valore del cibo come legante relazionale;
  • il significato del cibo come espressione del prestigio sociale;
  • l’uso del cibo per l’esercizio del potere all’interno delle famiglie come nella geopolitica internazionale come stiamo vedendo con la guerra in Ucraina.

Questo però vuol dire:

  • acquisire una maggiore consapevolezza di ciò che mangiamo;
  • abbassare la pretesa di mettere in menù le fragole a Natale;
  • non pensare che le pere dall’Argentina siano ugualmente sostenibili delle pere del frutteto nelle vicinanze e se il frutteto nelle vicinanze non ha le pere, adatterò il mio gusto a ciò che è disponibile;
  • non aspettarsi che ogni frutto venga replicato sempre uguale in ogni suo esemplare come è stato fatto per gli hamburger di McDonald;
  • pensare al cibo come fonte di nutrimento, come ciò che diventa parte di noi, delle nostre cellule e dei nostri pensieri.  Qualcosa dunque da onorare, perché ci costituisce e ci forma. Qualcosa di prezioso, da non sprecare, da custodire, da scegliere con cura, cura della terra, del suolo, dell’acqua. Qualcosa per cui ringraziare l’universo ogni volta che lo mangiamo, ogni volta che lo cogliamo. Abbiamo bisogno di mangiare la quantità sufficiente a nutrirci in modo sano, non abbiamo bisogno di eccessi, né di ultra-lavorati.

Abbiamo bisogno di saperci dentro un delicato equilibrio che ci chiede consapevolezza, rispetto, gratitudine, condivisione.

Abbiamo bisogno di ricordare che siamo fondati fuori di noi, che non bastiamo a noi stessi, che la vita viene da altri, che ci dobbiamo ad Altro.

Tutto questo non è risolvibile con un nuovo OGM o una nuova macchina agricola. Tutto questo però deve essere incluso ogni volta che si progetta un nuovo OGM o una nuova macchina agricola.

Una macchina agricola viene disegnata a partire dal tipo di mondo e di umanità che modelliamo. Se il mondo è interpretato come luogo di sfruttamento, il terreno sarà soltanto un mezzo per attuare l’estrazione di risorse, di conseguenza i campi dovranno essere perfettamente sgombri da ogni pianta che non sia quella coltivata ed essere così funzionali al passaggio delle macchine agricole. Le cultivar seminate dovranno adattarsi alle caratteristiche della macchina che le raccoglie mantenendo forma e colore per tempi lunghi adatti ai viaggi transcontinentali e agli scaffali dei supermercati. Ovviamente l’ingegneria genetica dovrà intervenire per velocizzare le selezioni di varietà che abbiano caratteristiche commercialmente desiderabili e subordinate al sistema economico iperglobalizzato che abbiamo messo in atto.

In tutto questo cosa c’entra lo sciamano? Nulla ovviamente.

Ci servono poche ben selezionate varietà da spingere in monocoltura altamente meccanizzata e tecnologizzata per sfamare i famosi (quasi) 8 miliardi di esseri umani.

Lo sciamano non aumenta la resa agricola così calcolata, ma con i suoi rituali aiutava la comunità a riposizionarsi ogni volta di nuovo rispetto al da dove veniamo, da dove attingiamo la vita, avendo pazienza, sapendo aspettare, sapendo ringraziare per non aggredire e non demolire. Abbiamo bisogno cioè di trovare connessioni con il mondo dello Spirito, una centratura unificante, per ricordarci che non c’è nulla da dare per scontato, che è semplicemente illusorio credere di trovare risposte sull’ultimo gradino, ignorando l’immensità che gli sta dietro, perché mancare l’obiettivo ci farà rimanere affamati, di vita.


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