“Ho comprato la confezione da 36: in famiglia conviene averne quando serve!” – dice la protagonista della pubblicità, mostrando orgogliosa all’amica il suo nuovo acquisto. Sembrerebbe trattarsi di fazzoletti di carta o di fette biscottate. Invece si tratta di un farmaco antinfiammatorio.
Devo essermi persa qualche puntata nel frattempo. Avevo capito infatti che i farmaci venissero da lontano, come la loro etimologia che racconta la storia di un medicamento che è anche veleno. Pare infatti che non sappiamo curare se non avvelenandoci un po’ con i farmaci, se non mutilandoci un po’ con la chirurgia. Che sia medico o chirurgico, l’atto terapeutico non può evadere quell’ambivalenza che è poi parte dell’esperienza della vita che facciamo sulla Terra.
Pertanto, l’atto terapeutico è cosa preziosa, preziosissima, da soppesare con cautela nella sua appropriatezza prescrittiva, da somministrare con parsimonia, da centellinare perfino, da maneggiare con estrema cura come fa l’orafo con le sue gemme riposte al sicuro nel forziere e tirate fuori solo per il cliente giusto.
Gli effetti collaterali sono inevitabili, certamente si presenteranno, in modo più o meno evidente a seconda dei casi. Quando la valutazione del danno è minore rispetto al vantaggio che ragionevolmente ci si può prefigurare, allora possiamo assumerci il rischio di una terapia. Occorre però rimanere ben consapevoli del rischio appunto di cui ci si va facendo carico.
Ma se la confezione da 36 mi viene proposta da una pubblicità che è preceduta da quella delle merendine; se è garantito che io esca da qualunque studio medico con una prescrizione; se l’automedicazione e i farmaci da banco vengono spacciati come la modalità per alleggerire l’accesso al sistema sanitario nazionale; se il bisturi è pronto ad assecondare ogni mio capriccio di disappunto estetico, quale messaggio mi viene trasmesso? Che il farmaco è come una merendina, me lo posso comprare anche al supermercato, senza nessun controllo medico. E se è tutto così semplice e immediato, male non mi farà. E il business cresce. E le multinazionali del farmaco ridono – a crepapelle, la nostra pelle a crepare…
Catturati nell’orbita del consumismo, gli affari girano intorno alle logiche dell’esclusivo profitto, basate sulla sollecitazione dell’impulso e quindi sull’induzione all’acquisto. Assorbiti dal meccanismo, siamo noi stessi a chiedere al medico di darci i farmaci. Grazie alla semplificazione dell’over the counter il medico diventa un optional e compriamo l’oggetto del desiderio direttamente dal farmacista ridotto a braccio meccanico che dallo scaffale porta il prodotto sul bancone e rilascia lo scontrino.
Sarà possibile riprendersi dall’abbuffata?
E se provassimo a ripartire dall’ascolto e dalla pazienza? L’ascolto paziente di ciò che sentiamo, senza la smania di fare in fretta. Quando si sta male si vuole soltanto ritornare a stare bene o almeno un po’ meno male. È comprensibile ed auspicabile. Tuttavia, la fretta è cattiva consigliera, dicevano un tempo.
Qui allora occorre il coraggio di un radicale cambio di prospettiva.
Se tentiamo un percorso di integrazione e ritorniamo dagli anfratti dell’alienazione, possiamo provare a scoprire il corpo come quell’Io in formazione che ciascuno di noi è.
L’autoconoscimento delle emozioni reattive ci fa risalire alle distorsioni dell’ego e, con la guida di un maestro sapiente, impariamo ad attraversare l’angoscia fino a levigare qualche spigolo egoico. Allo stesso modo, abbiamo bisogno di medici che ci prendano per mano nelle discese tra i sintomi, lì dove fa male, che ci insegnino a riconoscere i ritmi corporei, senza forzature. Abbiamo bisogno di imparare a discernere i segnali corporei, accompagnandone il movimento, rimanendo presenza accogliente, ricurva sulla parte ferita, a pretese abbassate.
E poi lasciare che la creatività si metta in moto, nella sua esplosività. Si cerca attivamente una soluzione, che non necessariamente è quella veloce a portata di mano. Il più delle volte è quella lenta, che si sa ricalibrare a fronte dei continui adattamenti con cui il corpo risponde. Altre volte la soluzione non c’è, nel senso del risultato e impariamo a non pretenderla. Non è detto che si guarisca, ma il sollievo è sempre possibile, perché innanzitutto è nelle relazioni.
Così usciremo dallo studio medico con un senso di soddisfazione per essere stati ascoltati, perché veramente siamo stati presi in carico, perché lui si è fatto carico del nostro star male, lo abbiamo condiviso, lo stiamo attraversando insieme.